Afrodite e Ares

 

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Certe notti di cartone nero,
troppo scuro per essere vero.
In cielo una falce rossa,
proietta in terra ombra bassa
dai contorni confusi.
Punta ad oriente
come lama fendente,
di amori ricusi,
mette a disagio,
questo astro di latta ad un filo appeso
quasi immobile vive sospeso
incombe come funesto presagio.
Dorme Afrodite
ed Ares non riposa.
Dorme tra le sue lenzuola di effimera bellezza,
comunque rassicurante.
Dorme la sua sposa,
dorme noncurante.
La guarda come fosse una proiezione
lontana,
un sogno, un’illusione, un’invenzione.
Simulacro.
È lì eppure lontana, distante
Vaga l’anima un tempo amena,
pensante, pesante
si aggira come uno spettro, fuoco fatuo,
sbiadito riflesso di se stesso,
corpo vacuo.
La mente si arena.
Gli spazi infiniti troppo angusti,
claustrofobici interstizi,
che danno su baratri,
salti temporali, precipizi.
Non può essere questa la vita,
e nemmeno un bivacco,
ma intanto brucia,
brucia tra le dita,
tra i calici di Bacco,
tra mille vizi.
Ma niente, non c’è sollievo per questa ferita.
E brucia, brucia come le passioni
umide di acqua salata,
come i papaveri bruciano nei campi d’estate.
Arriva Apollo a portare il mattino,
il primo raggio di sole fa capolino.
Si accascia Ares a capo chino,
uno sbadiglio,
Afrodite è quasi desta,
un bisbiglio,
lui deve fare in fretta,
sta per crollare.
Si sfiorano appena,
si addormenta supino.

Rosario Lubrano

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